TROIA – Forse era troppo “sudista”, l’ignoto costruttore avrà favorito l’anonimato della sua opera, probabilmente i pugliesi dell’epoca le avranno fatto poca pubblicità, ma quando si ricordano le cattedrali antiche, quella di Troia viene ignorata a vantaggio di edifici più giovani. Si prenda un particolare: l’ambone di pietra sopraelevato sulla sinistra della navata, arricchito da fregi in bassorilievo e sorretto da quattro colonne. Se uno dei primi realizzati in Italia è nella basilica romanica di San Giulio, inizio del 1000, nel novarese, perché si passa poi ad esaltare opere vicine al 1200? Così, si salta la Chiesa troiana, il cui ambone risale “all’anno 1169 dell’Incarnazione del Signore”, come si legge nell’iscrizione latina: “nella seconda indizione, nel mese di maggio del quarto anno di regno del nostro signore Guglielmo, per grazia di Dio Re magnifico di Sicilia e d’Italia, figlio di Re Guglielmo”.
Al di là della splendida fattura, il gioiello nella cattedrale di Troia presenta alcune curiosità. È collocato su quattro colonne, quanti gli evangelisti e non vi si predicava, ma questo è noto. Era addirittura proibito e non per capriccio: dall’ambone si proclamava il Vangelo, aoltre all’Exultet nella Settimana Santa, e vi potevano salire solo il lettore, il salmista e il diacono. Non va confuso col pulpito, la piattaforma su cui salivano invece i predicatori per rivolgere ai fedeli appassionati e spesso infuocati discorsi teologici ed omelie. Avevano funzioni liturgiche nettamente distinte. L’ambone rappresenta la tomba vuota di Gesù, è di regola sulla destra, collega il transetto, area riservata ai celebranti, con la navata, occupata dai fedeli. L’altra curiosità è che nella cattedrale di Troia è collocato a sinistra, dopo il restauro negli anni ‘50, sul lato opposto perciò di quello scelto per le donne, prime a raggiungere il sepolcro la mattina di Pasqua.
Non è dall’ambone che a Troia i predicatori infiammavano i cristiani, svolgendo un ruolo di comunicazione, di vera e propria propaganda. Una chiesa è il luogo dove i credenti si riuniscono come un corpo unico, religiosi e fedeli insieme. Lo spiega con grande eleganza grafica e iconografica un volume della collana Dimensioni dello spirito San Paolo, “Bellezza e vita. La spiritualità nell’arte contemporanea”, 172 pag. 24 euro, di Timothy Verdon. Nasce da un’esperienza recente: la costruzione di una chiesa come sede di una nuova comunità cristiana, di Gesù della Trasfigurazione, fondata da due donne tra il 1958 e il 1970 a Orleans, Massachusetts. L’eccezionale interesse dei suoi membri per l’arte, l’architettura e la musica rientra nel carattere benedettino della compagine monastica: vita comune, lavoro, preghiera e ospitalità. In più, la Comunità di Gesù nasce nell’ambito della Riforma, in diversi provengono dal protestantesimo.
Dopo l’introduzione del curatore mons. Timothy Verdon, studioso americano di arte sacra che vive da anni a Firenze, un breve testo illustra la storia del cenobio e un saggio storico-teologico del prof. Martin Shannon riflette sul patrimonio artistico che vi è custodito. Altri saggi si soffermano sul pensiero cattolico e protestante intorno all’arte sacra nella vita e nel culto cristiano. In chiusura, scritti di un sacerdote sloveno e dell’artista fiorentino Filippo Rossi.
Sempre per le Edizioni San Paolo, un altro benedettino, Adalberto Piovano, presenta i primi due titoli di una colta riflessione sugli otto peccati capitali. “Accidia” (168 pag. 12 euro), che è l’indisponibilità ad agire, la noia, l’indifferenza grave, è un male contemporaneo, ma per gli antichi monaci si nascondeva molto più nel profondo, nel cuore, a sabotare la relazione con Dio tentando di soffocare la gioia e la pace negli uomini. Ricordando alcuni autori monastici (Evagrio, Cassiano e Giovanni Climaco), il volume cerca di entrare nella complessa lotta contro la pigrizia spirituale. “Ingordigia” (136 pag. 11 euro) è un rapporto errato e stravolto col cibo. Si accompagna ad una relazione ambigua con il corpo ed altre dimensioni della propria vita. La patologia varia dal cibo come puro oggetto di consumo al cibo come minaccia estetica (l’anoressia) o come mezzo di distruzione del proprio fisico (bulimia). Tutte forme che per Piovano evidenziano una difficoltà a relazionarsi con il proprio corpo e con la propria interiorità.