Pubblichiamo l’intervento di Luca Cordero di Montezemolo al Convegno Nazionale del Sindacato della Polizia Italiana, il tutto è tratto dal sito di Italia Futura
Voglio innanzitutto ringraziare voi poliziotti, perché se il nostro paese sta ancora in piedi, nonostante tutto, lo deve a persone come voi. Italiani ignoti, che continuano a fare il proprio dovere per lo Stato mentre il disfacimento del senso delle istituzioni mette a rischio i fondamenti della nostra comunità nazionale.
Negli ultimi anni si è assistito ad un generale e diffuso ripiegamento della società italiana. Il divario tra l’Italia e gli altri paesi europei è aumentato, qualsiasi indicatore si prenda.
Gli imprenditori sono sempre più soli, vessati da fisco e burocrazia, i lavoratori guadagnano meno e pagano sempre più tasse, la capacità di risparmio delle famiglie è ridotta al lumicino, i giovani e le donne sono penalizzati nel mercato del lavoro, voi siete costretti a protestare per ottenere benzina per le macchine di servizio e fondi per gli straordinari.
Aumenta la corruzione e il degrado del vivere civile, insieme ai divari tra nord e sud, tra giovani e vecchi, tra precari e garantiti, tra chi lavora e produce e chi gode di inaccettabili rendite di posizione.
Parliamoci chiaro, il bilancio della seconda repubblica è un disastro che peggiora ogni giorno.
C’è oggi un paese reale che arranca e che vorrebbe voltare pagina. E’ il paese che ha festeggiato i 150 anni dell’Italia con fierezza e orgoglio, è il paese che affronta le mille emergenze quotidiane in cui siamo immersi, senza perdersi d’animo, è il paese che non ha paura di cambiare, di competere, di volgere lo sguardo al futuro.
Accanto a questo paese esiste una politica che straborda ogni giorno su tutti i mezzi di informazione, con polemiche incomprensibili per il 99% dei cittadini, e che, in questi giorni, ci ha deliziato con scene che sarebbero fuori posto in uno stadio, figuriamoci nel Parlamento della Repubblica. Lo ripeto: stiamo assistendo ad un indecoroso e inaccettabile disfacimento del senso delle istituzioni e della responsabilità pubblica. E ciò è accompagnato dal silenzio assordante della società civile, delle associazioni di rappresentanza e della classe dirigente del paese, che rischia di diventare complice di questo degrado.
L’unico argine che tiene è la Presidenza della Repubblica, a cui mai come ora dobbiamo essere tutti grati.
La “professione” che ha goduto più di tutte di una rendita di posizione in questo diciassettennio è quella della politica. In Italia la politica è oramai da anni la prima azienda del paese, e la società è infettata da una presenza malsana dei partiti, in una miriade di settori che non gli competono.
Ma la perdita del senso del pudore non risulta solo dall’abuso di privilegi ingiusti, ma anche da quella che io chiamo la “sindrome del marziano”. Politici che sono sulla scena da vent’anni e che parlano come se fossero arrivati ieri da Marte.
Capita allora, che un membro dell’esecutivo, che ha ricoperto ruoli politici e di governo di primo piano negli ultimi vent’anni, dichiari in televisione che il vero problema dell’Italia è la differenza tra Nord e Sud, e ciò dopo aver operato il più massiccio spostamento di risorse da Sud a Nord che la storia ricordi.
Ovviamente poi i problemi italiani sono sempre frutto di qualcosa che accade nel resto del mondo. L’Europa, i cinesi, gli indiani, l’11 settembre e ultimamente anche i francesi. Poco importa se tutti gli altri paesi si confrontano con gli stessi concorrenti e le stesse crisi e ne escono meglio e prima di noi.
C’è veramente da non raccapezzarsi più. Tagliamo i fondi per l’università e la ricerca e poi scopriamo che non sono stati spesi ingenti fondi europei destinati alle regioni del Sud, proprio su questi capitoli di spesa. Ci ripetono che non ci sono risorse per investimenti e poi leggiamo oggi sui giornali che un Governo che si definisce liberale risuscita l’IRI, e vuole tornare a fare l’azionista nelle aziende di mercato, a incominciare da Parmalat.
C’è da domandarsi se un bilancio che considera intoccabili le provincie e taglia sicurezza e cultura, sia lo specchio di un popolo vizioso o rappresenti, invece, il fallimento di una classe politica incapace di pensare al futuro.
Un sano equilibrio finanziario non si raggiunge solo con i tagli lineari che colpiscono i settori strategici, il “core business” dello Stato, né facendo confusione tra costi e investimenti.
Con tutte le tasse che paghiamo non possiamo sentirci dire che non ci sono risorse per la sicurezza.
Un problema con cui sono ormai alle prese tutte le democrazie avanzate, perché i cittadini si sentono ovunque più insicuri di fronte ai cambiamenti traumatici del mondo, e dunque chiedono più sicurezza.
Ma è pensabile che la sicurezza venga considerata come un costo superfluo? O non si tratta, invece, di un investimento indispensabile per la qualità della vita di tutti noi, così come per ogni attività economica?
Voi lo sapete meglio di altri: la sicurezza non è né di destra né di sinistra, né può diventare vittima di strumentalizzazioni o contrapposizioni ideologiche del tutto infondate.
Si tratta di una esigenza legittima e sempre più centrale delle nostre società. E come tale non può essere gestita solo in termini emergenziali, né può essere lasciata solo sulle spalle delle forze di sicurezza.
Ma deve essere pienamente condivisa dalla politica, in una logica matura e bipartisan, come una grande urgenza del nostro tempo. Perché questo è quello che i cittadini si aspettano dalle nostre istituzioni democratiche.
Dire queste cose, non è fare antipolitica, ma chiamarle con il loro nome. E, come ho detto, uno dei problemi dell’Italia è proprio che le voci della società civile si sono sempre più affievolite.
Anche per questo, due anni fa, insieme ad un gruppo di giovani e di amici provenienti da percorsi professionali diversi, abbiamo fondato Italia Futura. Siamo intervenuti nel dibattito pubblico con proposte sulla mobilità sociale, la scuola, i giovani, il fisco, la sanità e abbiamo cercato anche di richiamare la politica al rispetto degli impegni presi con i cittadini.
La risposta è sempre la stessa: se vuoi parlare di politica devi entrare in politica.
E se la situazione continua a peggiorare, se questo è lo spettacolo che offre la nostra classe politica, allora cresce veramente la tentazione di prenderli in parola.
Il messaggio che ci lanciano è: “puoi pagare le tasse, puoi investire e creare posti di lavoro ma la cosa pubblica è cosa nostra, territorio esclusivo e riservato per chi fa il politico di professione“. Per me questo ragionamento è inaccettabile.
Molti amici e colleghi imprenditori mi chiedono “Luca ma chi te lo fa fare ad esporti, la politica è una bestia pericolosa con cui confrontarsi”. A volte penso che abbiano ragione, in particolare quando dal nulla appaiono regole che sembrano fatte ad hoc per fermare o ritardare qualche investimento che porterà concorrenza e posti di lavoro.
Ma il problema è che se ognuno di noi continua a limitarsi a fare il proprio mestiere, rinunciando a far valere le proprie idee e opinioni, a essere cittadino, il paese rischia di andare a scatafascio. Anche come Presidente di Confindustria ho sempre detto che prima che come imprenditori, dobbiamo parlare da cittadini.
Ha ragione il vostro segretario, quando ricorda che “il bene comune è molto di più della somma delle singole parti”. Nessuno di noi può più permettersi di scindere le sorti individuali da quella della nostra comunità.
Per questo è venuto il momento di recuperare uno spazio nella discussione pubblica che, come cittadini, ci è stato tolto. Parlo di discussione, di idee, perché con le monetine e gli insulti nulla cambia mai per il meglio. In Italia lo abbiamo già sperimentato, ed è una lezione che dovremmo tenere bene a mente.
L’Italia ha raggiunto il punto di ebollizione.
Quando i politici flettono i bicipidi e scendono in guerra è perché hanno perso autorevolezza. Quando le aule parlamentari diventano il palcoscenico di una guerriglia politica che paralizza la nostra democrazia, tanto da far addirittura ipotizzare alla pubblica opinione un possibile scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubblica, vuol dire che siamo arrivati al punto di non ritorno.
Sempre di più all’estero mi chiedono come è possibile che gli italiani accettino con rassegnazione questo stato di cose. Io credo che uno dei problemi siano le ripetute delusioni che si sono accompagnate ad ogni apparente rinnovamento dell’offerta politica negli ultimi vent’anni.
Berlusconi, che doveva fare la rivoluzione liberale, guida oggi un Governo che più neostatalista e protezionista non si può, e le tasse su imprese e cittadini sono ai massimi storici.
Il Partito Democratico, che poteva rappresentare la nascita di una sinistra riformista e moderna, è dilaniato da dibattiti interni senza fine, tanto che spesso non siamo in grado di capire quale sia la sua posizione sui principali argomenti.
La Lega, che era nata per tagliare burocrazia e sprechi, difende a spada tratta la conservazione di ogni poltrona pubblica su cui può mettere le mani, a iniziare dalle provincie.
Nell’ultima crisi di Governo, Berlusconi è stato salvato da due parlamentari del partito di Antonio Di Pietro, che tutti i giorni ci delizia con nuovi epiteti rivolti al premier.
Il minimo che si possa dire, in gergo imprenditoriale, è che c’è una certa confusione dal lato dell’offerta, e anche per questo l’astensione cresce a ogni tornata elettorale.
Pur guidato da una classe politica in gran parte fallita, il paese rimane sano in moltissime componenti pubbliche e private, e si colgono segnali di reazione ovunque nel paese.
Gli imprenditori vincono sui mercati, le donne chiedono più attenzione per i loro problemi, il mondo della cultura non accetta più di essere trascurato, gli operatori dello Stato continuano a combattere con grande successo la criminalità.
Persino nelle ovattate stanze del capitalismo cresce l’insofferenza per liturgie e rituali ormai sorpassati.
Le potenzialità sono intatte ma non riescono a esprimersi. Un mondo sempre più difficile e competitivo non si può affrontare giocando sempre in difesa, senza avere una strategia di sistema e un efficace gioco di squadra. Come si fa a pensare che il protezionismo possa essere una risposta per un paese che vive di export?
Ma chi credete che fornisca, ad esempio, la pelle lavorata ai grandi marchi del lusso francese se non i, tanti, straordinari, artigiani italiani?
Possibile che un Governo che doveva fare la rivoluzione liberale non capisca che piuttosto che difendere l’italianità di Parmalat e Bulgari il suo lavoro dovrebbe essere quello di creare le condizioni per far nascere altre 1.000 Bulgari e 1.000 Parmalat ?
Non si sente più parlare di crescita, concorrenza, semplificazione, e la parola sviluppo è sparita dal lessico del Governo. La politica economica è ormai allo sbando e si pensa solo a tamponare le emergenze.
L’Italia non ha più ne un baricentro ne una meta.
Come possiamo uscire da questa palude?
La prima cosa è non farsi scoraggiare, rifiutando l’apatia che talvolta sembra opprimerci. Dobbiamo ricominciare a far sentire la nostra voce con forza. Un brutto periodo si sta chiudendo. E’ ormai urgente un ricambio di forze fresche. Toccherà a tutte le componenti sane del paese, nella politica e nella società, occuparsi della fase di ricostruzione, che necessariamente si aprirà fra non molto.
Dobbiamo essere tutti pronti a dare un contributo per riedificare le “infrastrutture istituzionali”, citando una bella espressione usata dal vostro Segretario, che sono lesionate ma non abbattute. Una ricostruzione resa necessaria, non da una guerra, ma da troppi anni di non scelte. Coesione, unità di intenti, responsabilità, senso dello Stato e delle istituzioni, superamento di barriere ideologiche e partitiche.
Come ha recentemente ricordato il Cardinal Bagnasco, “L’Italia ha un estremo bisogno di ricomporsi, quasi raccogliendosi in se stessa, radunando le proprie energie migliori, per metterle tutte in circolo e produrre un passo in avanti”.
Se sapremo ritrovare il coraggio e l’orgoglio, ricominceremo a contare anche in Europa. Non è accettabile essere esclusi dalle decisioni sul conflitto in Libia, quando siamo noi a pagare il prezzo più alto. Fosse pure solo una conference call o una email. L’Italia non lo merita. Indipendentemente dal giudizio che ognuno di noi può avere su questo Governo.
Così come non è accettabile che le frontiere dell’Italia non siano considerate frontiere dell’Europa, con tutto ciò che ne consegue sul piano dell’aiuto che dobbiamo pretendere, nella gestione dell’emergenza profughi.
Tutto si può imputare al nostro paese, tranne che non abbia sempre servito con generosità e sacrificio in ogni missione internazionale.
Bisogna parlare al paese parlando del paese.
C’è bisogno di una leadership che dica la verità, che abbia il coraggio di decidere, di rianimare l’Italia, di aiutarla a riannodare il filo della sua storia e di ritrovare la sua identità e la fiducia in se stessa.
Ma soprattutto, dobbiamo ritrovare il gusto della sfida. Smettere di ascoltare chi ci racconta che il declino è inevitabile, attribuendone la responsabilità sempre a qualche minaccioso fenomeno globale, rispetto al quale poco o nulla possiamo fare. Rimanere tra le squadre di testa è l’obiettivo minimo che questo paese deve darsi.
Certe volte ti capita di perdere all’ultima gara o all’ultimo giro, ma l’importante è poter dire che si è combattuto fino alla fine. Io non credo che dobbiamo accontentarci di sentir ripetere che è un grande successo se non siamo finiti come la Grecia!!
Ma scherziamo! l’Italia è una delle grandi protagoniste dell’economia mondiale!
Vi rendete conto che è come se un imprenditore avesse come obiettivo quello di non fallire?
In vent’anni alla Ferrari non abbiamo mai rinunciato, fino all’ultimo secondo dell’ultima competizione. Spesso abbiamo vinto, tante volte abbiamo perso, ma sempre a testa alta.
Io credo che Italia sia come una Ferrari; una macchina straordinaria fatta per correre, per competere e per vincere. Non possiamo più permetterci di tenerla ferma ai box per paura di una sconfitta, dobbiamo rimetterla in moto; tutti insieme.