Si nascondevano nelle foreste del Gargano, scendevano raramente a depredare le masserie del Tavoliere ma quando lo facevano lasciavano il segno. Nella Montagna non c’era sentiero che non conoscessero, non c’era attività che non aggredissero, non c’era proprietà sulla quale non esercitassero pressione o non pretendessero regalìe, l’antenato dell’odierno “pizzo”. Non c’era ragazza che se desiderata non finisse nelle loro mani. Li chiamavano briganti, né più né meno, ma erano i tagliagole che infestavano la Capitanata durante il regno francese di Napoli e che nei primi del 1800 predavano poderi e aziende agricole, spogliando l’economia del foggiano.Non a caso, venne rivolto alla repressione del brigantaggio uno dei primi provvedimenti di Gioacchino Murat, salito sul trono di Napoli nel luglio de11808. Per porre termine agli orrori ai danni delle popolazioni pugliesi, mise al bando chiunque venisse sorpreso con le armi in pugno, decretò il giudizio sommario per quanti fossero colti con le armi in pugno, giunse a vietare provvedimenti di clemenza, pose una taglia fino a 500 ducati sulla testa dei banditi e minacciò confische di beni e rappresaglie ancora più gravi contro chiunque aiutasse i malviventi. Per i parenti dei fuorilegge, poi, erano previste misure severe. Se poi qualcuno era stato costretto con la forza ad offrire assistenza ai malviventi, aveva tempo solo fino alle sei ore successive per la denuncia, prima di essere trattato alla pari dei briganti e dei favoreggiatori.Non era certo sereno il volto del Sud all’inizio del XIX secolo: strade malsicure, furti, ricatti, sequestri, una pressione intollerabile, che Murat si proponeva di cancellare in breve tempo, esattamente come avevano fatto e faranno successivamente i Borboni. Il brigantaggio in Capitanata è stato endemico, soprattutto nelle inesplorabili foreste garganiche, “ospitali” solo per gli uomini alla macchia. Nessuno ha nostalgia di quei predoni, nessuno dedica loro poemi, romanzi, opere teatrali. Quei i proto-briganti non sembrano eroi romantici né fanno sospirare le donne dei nostri giorni.Mezzo secolo dopo, quegli stessi territori, per le stesse ragioni di impenetrabilità, ospitarono una parentesi di brigantaggio questa volta molto mitizzata invece dalla cultura meridionale, che ne ha fatto campioni di una resistenza sudista all’invasore piemontese. Anche nell’anno che celebra il 150° dell’unità, se ne parla con rispetto: Briganti con la “B” maiuscola, antenati dei partigiani antifascisti. Un grande innamoramento del Mezzogiorno verso i suoi ribelli, che si nascondevano nelle foreste del Gargano, depredavano le masserie del Tavoliere, dominavano la Montagna, aggredivano le proprietà, pretendevano beni e riscatti. Esattamente come i loro antenati repressi da Borboni e francesi. Ma sembra che il sangue dei liberali versato nel nome di Franceschiello non faccia orrore. Non merita nemmeno la compassione riservata ai giacobini vittime delle orde di Ruffo, nel 1799, che sempre nel nome dei Borboni sgozzavano e bruciavano vivi “li signuri”.Oggi, la ragione politica dei meridionalisti legge la storia con una lente diversa ed esalta il brigantaggio postunitario, lo nobilita, lo rende ribellismo. Però, “male stavano e male staranno”: Pino Pisicchio raffredda il romanticismo della lotta dei “cafoni” riportandola coi piedi per terra, a pestare il sangue dei caduti: i signori, i massari, i soldati massacrati e gli stessi briganti, sterminati dalla repressione. Il parlamentare e scrittore pugliese lo fa nella prefazione di un piccolo e intenso libretto, pubblicato da Levante (46 pag. 6 euro), che raccoglie l’atto unico teatrale di Luigi Angiuli “Briganti e Piemontesi”. L’autore è anche il narratore nello spettacolo: un monologo con l’accompagnamento del cantastorie polistrumentista Carmine Damiani e della suonatrice di tammorra Marianna Ruggieri, che eseguono musiche popolari. Angioli sostiene che “quella del Meridione, del Regno delle Due Sicilie, non fu un’annessione indolore, i Piemontesi operarono una vera conquista, uccidendo con spietatezza, razziando, distruggendo e impossessandosi di tutto ciò che era trasferibile al Nord, incominciando dal tesoro del Banco di Napoli”. Parla di 700.000 “terroni che ci rimisero la vita, tra combattenti, civili e deportati. Lo scienziato Cesare Lombroso usò 500 teste di Briganti per studiare la conformazione cranica dei delinquenti nati”. Non si tratta “di recriminare – afferma – ma di puntualizzare la storia, affinché alcune verità vengano definitivamente acquisite”.Per una verità sostenuta di occupazione del Settentrione ai danni del Meridione, una identità cercata tra Nord e Sud da un grande scrittore, cinquant’anni fa, in maniera talvolta stralunata ma straordinariamente creativa. Giovanni Arpino – di padre napoletano, non va dimenticato – alla vigilia del centenario dell’unità scrisse con “leggerezza poetica e stile chiaro, sciolto e disinvolto”, “Le mille e una Italia”, appena ristampato per i tipi Lindau, 244 pag. 19,50 euro.Il piccolo Marco di De Amicis viaggiava dagli Appennini alle Ande per ritrovare la mamma. Il dodicenne Riccio di Arpino parte dalla Sicilia verso il Monte Bianco, a ricongiungersi al padre che lavora al traforo. E attraversa l’Italia, la nuova Italia unificata.“È un racconto fantastico dedicato al nostro Paese, alla sua storia, alle sue tradizioni e ai suoi eroi. Lungo un percorso in cui gli spazi geografici si intrecciano con i tempi della storia, Riccio Tumarrano incontra figure e uomini illustri di ogni epoca, che lo aiutano a comprendere i tratti, spesso irrisolti e contraddittori, della nostra nazione”. Ci sono Garibaldi e Cavour ovviamente, ma anche Annibale, Machiavelli, Galileo, Mussolini, Ferruccio Parri e la guerra partigiana nelle Langhe, perfino un vecchio Pulcinella, Papà Cervi e il Beato Cottolengo. “Ma è un’Italia diversa da quella dei libri di scuola, un’Italia imprevedibile e piena di speranza”, scrive Arpino in una nota al testo. E lo storico Giovanni De Luna, in uno dei due interventi di presentazione della nuova edizione – l’altro è di Mariarosa Masoero – sottolinea ora a sua volta quanto motivata e positiva fosse l’Italia del Centenario, non ancora disillusa e divisa come quella del Centocinquantenario.Fonte Agenzia di Stampa 2008